È una tarda mattinata di un giovedì mattina di ottobre, e terminata l’attività di studio ero presso gli uffici del comune per chiedere aggiornamenti in merito ad alcun pratiche edilizie quando vengo raggiunto da una telefonata del cancelliere del Tribunale di Sulmona che mi comunicava il desiderio del Presidente a che mi rendessi disponibile ad accettare l’incarico di tutore provvisorio di una persona per la quale si era aperto un procedimento di interdizione, in una vicenda delicatissima quanto urgente.
La grande stima verso il magistrato e la mia indole collaborativa mi convincevano a dirigermi subito presso l’ufficio giudiziario per vedere di cosa si trattasse e cosa mi era richiesto fare.
Iniziava qui la mia prima esperienza nel mondo delle disposizioni anticipate di trattamento (cosiddette DAT), che mi ha comunque personalmente segnato ma anche arricchito nel mio percorso di vita e professionale. Un mondo, e ne faccio ammenda, da me conosciuto solo superficialmente, attraverso le notizie dei mass media e qualche articolo di rivista giuridica, ma mai fino ad allora approfondito.

Nino (così lo chiamerò per rispetto alla privacy) era stato colpito nella notte del 13 settembre 2018 da un grave evento di dissecazione aortica di tipo A, quella ascendente, malattia vascolare relativamente rara, gravata però da un’altissima mortalità, e che si verifica quando una lesione dello strato più interno della aorta consente al sangue di fluire tra gli strati della parete aortica, costringendoli a separarsi. L’improvviso e lancinante dolore avvertito da Nino mentre era a letto, aveva indotto al suo immediato ricovero presso l’Ospedale di Popoli, ove giungeva in stato di coma e veniva sottoposto a TAC ed ulteriori accertamenti, che confermavano la diagnosi di ingresso, nel mentre si accertava un costante peggioramento dei sintomi neurologici.
Si presentava così la necessità di un immediato ricovero presso il reparto di Terapia Intensiva Cardiochirurgica dell’Ospedale di Chieti, ove Nino giungeva durante la notte. Qui, pur sottoposto a terapia intensiva, non dava segni di miglioramento e preso atto della impossibilità di eseguire interventi veniva dopo quattro giorni dimesso per essere trasferito il 17 settembre presso il Reparto di anestesia e rianimazione dell’Ospedale di Sulmona, attesa la stabilizzazione del quadro clinico, sempre gravissimo.
Presso questo reparto Nino rimaneva in coma vegetativo, con stato di veglia e assenza di coscienza e contattabilità, in tetralgia completa, e veniva mantenuto in vita con specifiche terapie, quali la ventilazione artificiale attraverso tubo orotracheale e ventilatore meccanico e nutrizione artificiale.
Alla richiesta di sottoporlo a tracheostomia (intervento utile ad assicurare comunque la ventilazione artificiale in modo alternativo a quello applicato) e PEG (gastrostomia endoscopica percutanea) per la nutrizione, finalizzati poi al ricovero presso un centro per neurolesi cronici, il dirigente del reparto riceveva diniego da parte dei familiari di Nino, i quali sostenevano che egli mai avrebbe voluto tali cure, considerate accanimento terapeutico, e considerata anche la impossibilità di un recupero ad una vita quantomeno dignitosa.
In ragione della possibilità di procedere ai prospettati trattamenti sanitari, e non avendo il paziente sottoscritto e rilasciato Disposizioni Anticipate di Trattamento (c.d. DAT), il medico, non potendo ottenere il suo consenso o dissenso, atteso lo stato comatoso, richiedeva alla Procura della Repubblica, il 10 ottobre, di attivarsi per la dichiarazione di interdizione del paziente e la nomina di un tutore, nel quadro della nuova normativa della L.22.12.2017 n.219 , anche alla luce del fatto che i familiari di Nino, nella specie la moglie e la sorella, non avevano dato il consenso ai richiamati interventi.
In realtà il consenso dei familiari, ove prestato, sarebbe stato improprio ed inutilizzabile, non essendo costoro titolati ad esprimere per Nino il consenso, e potendo potenzialmente anche avere interessi confliggenti a quelli del paziente.
Con istanza del 11 ottobre, oramai a quattro mesi dal ricovero, con un quadro compromesso ma stabile la locale Procura della Repubblica si rivolgeva al Presidente del Tribunale affinché pronunciasse sentenza di interdizione di Nino con nomina di un tutore, che stante l’urgenza, appariva opportuna essere nel frattempo provvisoria.
In realtà la richiesta della Procura appariva in qualche modo condizionata, poiché si premetteva che moglie e sorella non avevano concesso il consenso per l’esecuzione di interventi che di definivano “atti a garantire la continuità di ogni terapia necessaria alla prosecuzione di vita e di cura”, quasi che si attendesse dal tutore l’esercizio di tale consenso, tanto da concludersi con la richiesta “che venga disposta in via d’urgenza la collocazione in luogo idoneo ai fini di garantire idonea cura”.
Lo stesso giorno il Presidente del Tribunale di Sulmona mi nominava e prestavo giuramento.

Una lettura semplicistica della vicenda e degli atti (sono pur sempre un avvocato) mi avrebbe condotto ad un adempimento dato quasi per scontato: Nino non aveva lasciato DAT, i parenti seppur informalmente negano il consenso, vengo nominato in ragione di questo. Quale più comoda soluzione di prestare il consenso alla tracheostomia per la ventilazione ed alla PEG per la nutrizione, ipotizzate dal medico e dallo stesso Sostituto Procuratore, con successivo trasporto del degente in una clinica per comatosi cronici, senza speranza di recupero alla vita attiva.
Infondo così non assumevo responsabilità e non mi esponevo a possibili polemiche e critiche per una scelta diversa.
Ma il mio carattere mi imponeva di non fuggire dalle responsabilità e di rispondere non solo alla mia coscienza, cercando di fare il meglio per Nino, ma anche di interpretare la sua volontà e lo spirito della nuova legga.
Nino non aveva lasciato DAT, lo sappiamo, ma del problema, ho poi appreso, ne aveva parlato in casa e con i parenti, perché proprio un anno prima suo padre era stato colpito dalla stessa malattia (certamente vi era quindi familiarità) ed egli aveva più volte espresso il pensiero che se fosse stato colpito da un simile evento mai avrebbe accettato di vivere in modo vegetativo, vittima di accanimento terapeutico.
Nino in quel momento ero io, perché nello spirito della legge dovevo decidere con lui e per lui cosa fare.
Mi sono recato per più giorni nel reparto di rianimazione e nella stanzetta a vista di Nino, mi sono tante volte confrontato con il Primario, trovando in lui non solo grande professionalità ma soprattutto grande umanità, non solo per comprendere il quadro clinico ed i possibili sviluppi, ma soprattutto per carpire da Nino, quasi me la potesse trasmettere nonostante la sua totale immobilità, l’ausilio di un respiratore, lo sguardo vitreo ed assente, il suono perenne e sistematico dei tutti i sensori collegati al video che rilevavano le sue attività, la sua vera volontà.
Cosa voleva Nino e cosa avrebbe chiesto o non chiesto se avesse potuto esprimere la sua volontà ?
Sono seguiti giorni, e non nascondo notti, di profondo turbamento. Ero preparato a decidere della vita di una persona, sostituendomi a lui in scelte personalissime e definitive ?
Potevo richiedere, come poi ho fatto, ulteriori accertamenti, nuove Tac, una relazione medica (che il Primario si era dichiarato pronto a stilare per supportare una mia qualsiasi decisione); potevo confrontarmi, come ho fatto, con il Presidente del Tribunale, uomo di grande sensibilità ed equilibrio, sapendolo comunque fermo in alcune sue visioni etiche e morali che rappresentano un rispettabile punto di vista e spesso anche un lontano richiamo quando si devono affrontare scelte sul mantenimento in vita di una persona. Ma alla fine dovevo decidere io assieme a Nino.
E lo dovevo fare come uomo, non dimenticando però di essere un avvocato.
E proprio nello spirito della legge, assumendo l’incarico, ho voluto visionare la cartella clinica del paziente e le TAC che evidenziavano un danno cerebrale estesissimo ed irreversibile; ho colloquiato per numerose volte con i parenti e soprattutto con il primario del reparto di rianimazione, visitando più volte il De Fanis; stavo istruendo come un diligente avvocato la pratica, al fine di determinarmi se dare il consenso al proposto trattamento o, al contrario, come pure la legge consente, rinunciare al trattamento in corso ed alle prestazioni sanitarie, alla luce del supremo valore della dignità umana e della visione della stessa che Nino, ove nelle possibilità, avrebbe rappresentato.
Visione e volontà che stavo ricostruendo attraverso l’ascolto di persone a lui vicine (familiari ed amici).
E ciò anche in considerazione del pressoché irreversibile stato vegetativo e del probabile accanimento terapeutico che la proposta prestazione sanitaria avrebbe comportato.
Ero il tutore dell’interdetto, e non potevo surrogarmi alla volontà del paziente ma, come ha affermato la Cassazione, ero chiamato a svolgere una funzione non sostitutiva della volontà del malato, ma integrativa di questa, nella ricostruzione delle sue direttive e nel perseguimento del migliore interesse, per ricercare ed attuare il quale dovevo decidere “non dell’incapace né l’incapace, ma l’incapace” anche nel rifiutare trattamenti sanitari quali sono quelli di sostegno vitale.
Rifiutare la respirazione assistita, ed anche l’idratazione e l’alimentazione artificiale, come “subite” da Nino, ritenuti oramai trattamenti sanitari.
E qui mi soccorreva, quantomeno nel diritto a decidere, la legge 219 del 2017.
Le decisione terapeutiche avevo il diritto di assumerle io, sentito, ove possibile, l’interdetto; ma esse avevano l’unico scopo della tutela della vita e della salute di Nino, con l’importante precisazione, però, che ciò avvenisse “sempre” nel pieno rispetto della sua dignità, decidendo non per lui ma con lui, cosicché dovevo farmi portatore della volontà di Nino, accettando o rifiutando cure inappropriate rispetto alla concezione della vita espressa da Nino in precedenza, secondo la sua visione della dignità umana.
E Nino, dopo i tanti momenti trascorsi in silenzio nella sua stanza, vedendo le sue terribili condizioni fisiche, l’utilizzo di macchinari artificiali, la paralisi completa, la presenza di piaghe da decubito, il notevole dimagrimento che ne aveva trasformato i connotati e la figura di uomo dinamico, energico, entusiasta della vita, quella condizione ho capito che non l’avrebbe mai accettata, e se avesse potuto esprimersi avrebbe rifiutato ogni trattamento, ivi compreso quello inizialmente proposto e per il quale si era sollecitato l’intervento della Procura della Repubblica.
E dovevo decidere, e questa era la cosa più difficile, prescindendo dalle mie convinzioni, scientifiche, giuridiche e morali, perché ciò avrebbe influenzato la decisione che tramite me Nino stava assumendo.
E soprattutto dovevo conservare a Nino la sua dignità, che è forse la principale ed innovativa tutela voluta dalla legge.
Il giorno in cui mi sono recato in ospedale e rappresentato al primario che mi stavo orientando in tal senso, cioè nel rifiuto al trattamento, anziché dare il consenso alla tracheostomia ed alla Peg, ne ho colto la prevedibile sorpresa. Era una decisione di forte responsabilità ed impatto, diversa da un comodo assenso ad una terapia tutto sommato ipotizzata dal medico ed assecondata con la richiesta di nomina dal magistrato della Procura.
Infondo un medico pensa sempre a salvare vite umane, e gli riesce difficile accettare l’idea di “staccare la spina”.
Ma nessuno mi fece ostacoli. Né il magistrato della Procura, che da me relazionato, comprese il mio orientamento, né il Primario del reparto, che rispettando questo mio orientamento non l’avrebbe contrastato. Al contrario si era dichiarato disposto a redigere una dettagliata relazione, con la quale si rappresentava oggettivamente il quadro clinico e le condizioni di Nino, e che mi sarebbe stato di aiuto e conforto nella mia decisione.
Avevo deciso. Nino avrebbe dichiarato tramite me la volontà di non sottoporsi a tracheostomia e proseguire i trattamenti in corso, non prestando più il consenso.
Ero nell’ufficio del Presidente del Tribunale il 25.10.2018 per comunicargli il mio orientamento, quando mi giungeva una telefonata del Primario che mi comunicava che Nino, a seguito di infezione, eventualità che era già stata rappresentata quale probabile evoluzione del suo quadro clinico, qualsiasi terapia si fosse per lui adottata, era deceduto.
Nino non aveva lasciato DAT, ma sono convinto che alla fine, quel giorno, abbia deciso lui di cessare di vivere e soffrire, anticipando così la mia espressione ufficiale di volontà.