Sulle vicende di udienza, microcosmo di varia umanità, credo che ogni avvocato potrebbe raccogliere un libro aneddoti e accadimenti. L’apoteosi è l’aula di udienza penale, quella che si vede nei telefilm americani, col giudice seduto sopra lo scranno, da una parte il pubblico ministero cioè il procuratore che rappresenta l’accusa e lo Stato e dall’altra il difensore, l’avvocato che aiuta l’indagato ad ottenere, se non l’assoluzione, almeno un processo giusto con rispetto delle regole.

È capitato all’inizio della mia carriera di ricoprire il ruolo di pubblico ministero onorario per circa tre anni. Un’esperienza formativa interessantissima che mi ha consentito di imparare a districarmi con abilità nei fascicoli penali, a capire sul campo la struttura di tanti reati ma anche come si fa, o come non si deve svolgere, la professione di avvocato.

Il pubblico ministero è quello che inizia il processo con le domande dirette alla parte offesa e poi via via agli altri testimoni.

Il processo sicuramente più significativo, che non mi toglierò mai dalla mente e dal cuore, è stato uno rubricato sotto un banale art. 570 codice penale. Si trattava di un padre che non aveva corrisposto l’assegno di mantenimento alla moglie e alle figlie.

Iniziai ad interrogare la querelante che confermò gli accadimenti contestati, con date precise riguardo la sentenza che statuiva l’assegno e quelle dei mancati versamenti, rappresentando la particolare, difficile situazione economica in cui versava, dovendo provvedere da sola a tre figlie.

Ovviamente furono auditi gli agenti di polizia giudiziaria che avevano svolto le indagini e il processo pareva ormai risolto e concluso, con palese colpevolezza dell’imputato il cui difensore laconicamente concludeva ad ogni testimonianza: ”Nessuna domanda”.

Mi accorsi però che una delle tre figlie, la più grande, in quanto maggiorenne, era stata ritenuta dalla Procura della Repubblica parte offesa anch’ella e fu chiamata sul banco dei testimoni. Le chiesi di confermare se il padre avesse mancato negli anni di versare l’assegno di mantenimento. Aveva gli occhi bassi e si tormentava le mani. Rispose: “Si confermo” e poi con un filo di voce ancora più basso: “Fosse solo quello”. Era tardi pomeriggio inoltrato, tutti stanchissimi, fuori già buio. Su quel bisbiglio alzò gli occhi e infilò i suoi occhi nei miei, mi guardò in un modo che non dimenticherò mai. Cosa mi stava dicendo? Che voleva dire con quel: “Fosse solo quello”?

Il processo era praticamente finito ma non lasciai perdere e la incalzai, trovandomi improvvisamente a proseguire nell’interrogatorio e ad insistere con una dolcezza inadeguata all’ambiente: “A cosa ti riferisci?” cercai di tirarle fuori qualche altra parola, un indizio.

I miei occhi nei suoi, senza abbandonarla un secondo, a farle da spalla per partorire il suo evidente dolore. Inaspettatamente bloccò le mani sulle gambe che tremavano e piangendo iniziò un racconto di violenze carnali continuate compiute dal padre ai danni suoi e delle sue sorelle più piccole. Fu terribile, angosciante, quell’infilarsi nel letto di notte, le scuse, le strategie per sottrarsi suggerite da lei alle minori.

Mentre raccontava mi scendevano le lagrime, non si deve fare in udienza ma non le fermavo. Non mi è mai più capitato. Si alzò alla fine del racconto e scappò via con la mamma mentre noi proseguivamo il processo.

Furono rimessi gli atti in Procura per le indagini da svolgere su quegli ulteriori drammatici elementi. Non ho più saputo nulla di quelle tre ragazze.

Alla fine dell’udienza ci fermammo a parlare col giudice (una donna), commentando quel dibattimento così penoso,  concludendo che sicuramente avevano fatto un bel lavoro con le pause, i sorrisi rassicuranti, il silenzio complice l’aula ormai vuota a quell’ora.

Indubbiamente in quelle due toghe poggiate sulle spalle di due donne la ragazza aveva trovato il coraggio di denunciare l’incubo della sua vita. Il padre.

Dal Blog Laberghy