Nel 2018 la Corte Europea dei Diritti Umani, nel procedimento S.V. v. Italia, ha condannato l’Italia per aver impedito a una persona transessuale di cambiare il suo nome in maschile prima di sottoporsi ad intervento chirurgico. Per la Corte l’Italia ha violato il diritto del ricorrente al rispetto della vita privata come previsto dall’articolo 8 della Convenzione Europea sui Diritti Umani.

All’epoca, il 2001, il Tribunale di Roma aveva autorizzato S.V. transessuale dall’aspetto femminile a sottoporsi ad un’operazione chirurgica per il cambiamento del sesso ma non a cambiare il suo nome maschile. La Corte ha ritenuto che attendere una seconda sentenza per la modifica della registrazione della stato civile ha costretto S.V., le cui sembianze fisiche e l’identità sociale erano da tempo erano femminili, in una posizione ambigua per un periodo di tempo irragionevole. Questo ha determinato la possibilità di generare senso di vulnerabilità, umiliazione e ansia con violazione del rispetto alla sua vita privata di cui lo Stato italiano non ha avuto rispetto.