Da qualche anno sapere come chiamare un avvocato donna è diventato un dubbio diffuso.

Qual è il femminile di avvocato?

Possiamo dire che nell’80% dei casi viene utilizzato, anche per il femminile del nostro nome di professione, il termine “avvocato”. Qualcuno si lancia in “avvocatessa”. Pochissimi utilizzano “avvocata”.

La necessità di declinare al femminile i nomi di professione risente ovviamente dei profondi cambiamenti avvenuti nella vita politica, culturale e sociale del nostro paese a seguito dell’ingresso delle donne in settori di prestigio del mondo del lavoro, delle professioni e delle istituzioni, settori tradizionalmente riservati esclusivamente agli uomini.

Le forme al femminile dei titoli professionali esistono, ma c’è tanta reticenza ad utilizzarle.

Indubbiamente non è solo una questione di stile o lessicale: è una questione di parità di genere tra i sessi; siamo ancora lontani da veder attuate una pari opportunità e dal riconoscimento degli stessi diritti fra uomini e donne, anche per quanto attiene i titoli.

E in un’ottica di cambiamento e riequilibrio, che tutti auspichiamo, anche il linguaggio e l’utilizzo dei termini corretti hanno la loro importanza.

Utilizzare termini maschili per indicare la professione di una donna è un’abitudine lessicale dura a morire, da molti giustificata con il ritenere alcuni titoli declinati al femminile siano poco musicali o cacofonici – tra questi avvocata, ministra e presidenta – o comunque considerandolo un capriccio femminile, così per finire a prediligere, discolpati, la forma maschile.

Secondo la Treccani: “Termini come ministra, sindaca, chirurga, architetta, ingegnera, ecc. sono forme corrette sul piano grammaticale e perfettamente riconducibili alle regole di formazione delle parole. L’ancóra diffusa reticenza nei confronti del loro uso non ha quindi alcuna ragion d’essere dal punto di vista grammaticale o più ampiamente linguistico. Essa dipende invece da scelte personali che risultano in una contravvenzione alle regole della lingua italiana e che rischiano di creare ambiguità e oscurità sul piano comunicativo, incluso quello della comunicazione istituzionale”. Nel caso della professione forense l’enciclopedia Treccani precisa che il sostantivo maschile avvocato ha come forme femminili sia avvocata che avvocatessa.  La prima è un attributo riferibile anche alla Madonna e tutte le altre sante della religione cattolica – in quanto “protettrici” – mentre la seconda forma è quella che viene utilizzata più comunemente.

L’Accademia della Crusca conferma questa impostazione perché riporta entrambe le forme come utilizzabili alternativamente, avvocata e avvocatessa, senza che se ne possa ritenere una prevalente o preferibile rispetto all’altra.

Le linee guida dell’Università Cà Foscari precisano che “L’uso della lingua, quando non rispettoso delle differenze di genere, è una delle forme di discriminazione più diffuse e, allo stesso tempo, meno percepita come tale. Nominare al femminile ruoli e funzioni, specialmente se di prestigio, rappresenta il primo, fondamentale passo da compiere per favorire il cambiamento culturale nella direzione delle pari opportunità e del riconoscimento e rispetto delle differenze di genere. L’uso della forma femminile per definire l’incarico o la funzione quando a ricoprirla è una donna conferisce visibilità“. Non solo una questione di forma grammaticale, quindi, come qualcuno vorrebbe relegarla, ma una vera e propria discriminazione nei confronti del genere femminile.

Il Comitato Pari Opportunità di Bergamo, insieme a Procura e Tribunale, ha adottato un protocollo d’intesa nel quale si caldeggia l’uso del termine avvocata nelle comunicazioni alle professioniste, preceduto dall’aggettivo egregia.

Come vedete tanti studiosi di lingua italiana, oltre che professionisti, ritengono sia importante, per riconoscere alla donna pari dignità, partire dal linguaggio, superando il falso problema del “suona male”.

Per quanto ci riguarda ricordiamo che i femminili in “essa” sono nati in un periodo storico in cui questo suffisso veniva spesso usato in modo canzonatorio, o per indicare la ‘ moglie di’ (come la sindachessa) e quindi la nostra preferenza ricade sulla forma in “a” e non in “essa”.

Poi, qualche anno fa, abbiamo avuto una piacevole corrispondenza con il professor Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, in occasione della presentazione del libro “Processo a Ovidio”, di cui il nostro studio è stato protagonista, e il suo approccio è stato subito con il termine Avvocata riferito ad Anna Berghella.

Gentilissima Avvocata,

i giorni passano veloci e mi portano anche lontano dai nostri luoghi. Ma il ricordo della calda (appunto!) cerimonia sulmonese non è svanito. La ringrazio vivamente dell’occasione che mi ha dato di ritrovare molti amici e di riflettere insieme sui legami e doveri con la nostra terra.

                Attendo con piacere le foto che si annunciano. La prego di salutare per me, e per mia moglie, tanti cari amici; e a Lei e ai Suoi i migliori auguri di buone feste.

Francesco Sabatini

Pertanto il termine che preferiamo, senza ripensamento alcuno, riponendo nel Professore un stima profonda (è spesso ospite a Sulmona essendo un nostro conterraneo, nato a Pescocostanzo)  è Avvocata. Impariamo ad utilizzarlo.